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Béla Tarr

Regista

2025

Motivazione

Nell’anno in cui la Capitale europea della cultura si fa doppia, come nello straordinario caso transfrontaliero di Nova Gorica e Gorizia, abbiamo voluto raddoppiare anche il Premio Darko Bratina, così intimamente legato a questa duplice cultura, sospesa tra Oriente e Occidente. Abbiamo dunque scelto di attribuirlo a due autori cinematografici provenienti da due mondi diversi: da una parte l’Est, con Béla Tarr, immenso maestro ungherese capace di narrare la maledizione e la resistenza di un mondo in frantumi; dall’altra l’Ovest – o meglio, due voci unite, (anche se uno è di origine Armena) Yervant Gianikian e Angela Ricci-Lucchi che in cinquant’anni hanno dato vita a un cinema inedito. Un cinema nato da immagini ritrovate, non loro personali, ma di tutti noi, che ha saputo tessere la memoria del mondo umano (basti pensare alle pellicole composte a partire dai filmati girati da Luca Comerio durante la Prima guerra mondiale). Con le loro opere hanno attraversato il mondo dimostrando che il cinema nasce lungo i percorsi della libertà, del dialogo, della poesia e dell’indipendenza di scelte anticonvenzionali, esigenti e dinamiche.

Entrambi i premiati, con il loro lavoro creativo, hanno tracciato nuove strade per uno sguardo diverso sul cinema, capace di oltrepassare confini geografici e linguistici. Le loro visioni hanno aperto spazi di riflessione sulla storia, sulla società e sull’arte, insegnandoci che il cinema è luogo di incontro tra culture, memorie e destini umani.

 

Biografia

Béla Tarr, regista ungherese i cui film sono quasi tutti radicati nella sua terra d’origine, a ventiquattro anni realizza il suo primo lungometraggio Nido familiare (1979). La cinepresa a mano e la rabbia giovanile, col passare del tempo, si sono placate, ma allo stesso tempo si sono fatte più profonde. La notorietà mondiale gli arriva con l’epopea Sátántangó (1994), della durata di sette ore e venti minuti, girata nella pianura ungherese e premiata con l’Orso d’argento. I suoi film vanno oltre la narrazione, creando un ritmo e una dimensione che ricordano Ford o Melville, pur senza influssi diretti. Anche quando si avvicinano a Tarkovskij o Jancsó, i suoi film percorrono un cammino proprio, intriso di una forte dimensione politica e umanistica – come in Prologo (2004) o in Le armonie di Werckmeister (2000). Con Il cavallo di Torino (2011) ha scelto consapevolmente di concludere il suo percorso cinematografico. In seguito, si è dedicato alle installazioni artistiche e all’insegnamento, da Sarajevo a Praga. Considerato uno degli autori più sfuggenti ma al tempo stesso più celebrati della sua generazione, rimane simbolo del cinema d’autore, benché egli stesso rifiuti tale etichetta.